In Russia, quando una persona cara viene a mancare, chi resta raccoglie le proprie lacrime in una boccetta di vetro e, andando alla tomba del defunto, le versa sulla terra, recitando una preghiera.

Così facevano anche i miei nonni, però non versavano le lacrime sulla terra, perché chi muore non è dentro le ossa, dicevano, ritorna al vento. Buttavano la boccetta all’aria del primo mattino, graffiandosi il cuore coi cocci di vetro quando, inesorabile, cadeva per terra. Non la guardavano più, ripartivano correndo. Rifiutavano la sorte con il capo alto e le spalle che tracciavano linee discontinue lungo le ombre, nei viali abbandonati di città che avevano ingoiato senza nemmeno guardarle, passandoci accanto coi piedi di piume e un sorriso di piombo a macerare nel petto.
Non voltarti, non guardare, bambina, è già tempo di andare. Non voltarti, non guardare, chi si ferma muore.

Per me, che di quel viaggio ho raccolto l’eredità pesante ma non più l’azione, quella boccetta rimaneva in un angolo, asciutta e scontenta, a reclamare la carne che le dovevo, i pianti che non potevo più piangere perché tutti i miei parenti rom si erano persi e con loro le lacrime e il vino, la musica, i canti, i cristalli di zucchero e sangue sulle note disfatte del violino. Per me, che restavo, con foto bruciate sui bordi e violini senza più corde, che non conoscevo la mia stessa lingua.
Per me, che camminavo sui tizzoni di una cultura strappata, annegata nelle crepe di un tempo sbagliato, sempre sbagliato per noi.
Quando, però, hai una boccetta di lacrime vuote e un orologio che non segna mai il tempo giusto, ti abitui a vivere in bilico, a trattenere il fiato. A convincerti che non ti spetti l’aria satura di pianti che si possono più piangere.
Che morti piangevo, se ci avevano strappato anche i loro nomi, anche le facce sulle foto, sbiadite, divorate dagli anni, dal fuoco?

Invidiavo bruciando chiunque avesse una memoria, una foto, un passo di danza da ricordare. E avrei voluto gettare la mia boccetta dei morti sull’asfalto, lasciare che morisse lei stessa, lontano dai campi, lontano dal vento.
Se per vivere bisognava ricordare, noi tutti eravamo gli spettri di noi stessi, dei nostri antenati. Una lacrima di vetro che macera il cuore, strappa le vene intorno al petto.
Una mano a coppa dentro una stazione una supplica di metallo.

Se per morire, bastasse dimenticare, però, allora mi tengo la rabbia di non ricordare e un covo di vetro nel punto più fondo del petto e domani, per vivere, disotterrerò il violino, lo suonerò così senza corde e getterai la boccetta dei miei morti nel vento.
Perché un ultimo, misero, scorcio di memoria rimanesse a piangere i pianti, a cantare i canti che il sangue dei miei morti, dei nostri milioni di morti, hanno scritto per me.

(Morena Prediali)